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Mario Da Corgeno - Biografia

Mario Da Corgeno ( Mario Favini )

LUCE, AMORE, FORMA DELL’IDEA

“Come lo scalpello penetra nella pietra per trarne la figura, tu mi hai scolpito la vita lo spazio dell’amore…”

In questi versi da autentico, michelangiolesco lapicida di Mario da Corgeno sta tutto il mistero erotico di una forma scultorea vocativa ed evocativa che si espande mirabilmente come viluppo e sviluppo di tensioni plastiche. L’opera di Mario da Corgeno – va detto subito – porta in sé e con sé il retaggio prezioso di vent’anni di lavoro appartato e accorato, ostinatamente al riparo dalla ribalta delle cronache, di un lungo e tenero soliloquio con la bellezza luminosa, numinosa e dolorosa della vita. Negli ultimi due decenni, infatti, l’artista lombardo si è fatto testimone di una dimensione interiore della bellezza; una dimensione alchemica, umbratile, consolatoria, proiezione figurale di un io spirituale capace di guardare all’essere secondo lo sguardo dell’amore; amore che è, come in Platone, l’attrazione esercitata sull’anima dal pulchrum.

Sul difetto di senso e nobiltà denunciato dalle apparenze sensibili, Mario da Corgeno eleva l’epos di una ricerca espressiva nella materia e di un ascolto dell’arcano della forma, in una pratica artistica che ripete l’utopia delle avanguardie storiche: fare della vita medesima un’opera d’arte, il campo assoluto dell’estetica. Per la critica engagé contemporanea, “scientificamente” ancorata alla nozione di specializzazione del sapere e delle arti, l’opera omnia di questo singolare artista-contadino costituisce una sorta d’insormontabile anomalia, un “caso” da seppellire con la strategia complice del silenzio. Del resto, il lavoro di Mario da Corgeno, il suo toccare con sovrana humilitas e pari libertà i diversi versanti del verso, della pittura ad olio, del disegno, della scultura in pietra e bronzo, della costruzione di domestici oggetti lignei dal geniale congegno; tutto ciò attesta quello che oggi è forse l’ultimo vero esempio di una poetica, intendendo con il termine poetica la prevalenza normativa del vedere secondo un’originale misura del cuore che subordina e soggioga a sé l’empirìa della ratio e dell’ars.

Nel corpus di Mario da Corgeno tutto scaturisce da un’unica matrice originaria che si chiama vita; la vita come maternità generante valori fondativi quali la fede, la natura, la persona, l’amicizia, la compassione del dolore e della pena altrui. Una matrice che condivide persino l’etimo (matrix, mater) con l’altra categoria che illumina e disvela l’arte di Mario da Corgeno: la madre, appunto, stremata dolce ossessione sempre ritornante nelle magnetiche immagini femminili dello scultore, corpi sottoposti ad un’implacabile sublimazione fino a guadagnare lo studio di pure essenze spirituali. L’artista ci orchestra davanti agli occhi un eden piuttosto un limbo, una selva incantata di ninfe danzanti, di silfidi aggraziate e leggere, di sirene fuggitive come il palpito di una visione  o il battito d’ali di una qualche muliebre divinità silvestre che torni a farci visita nel tempo segreto del sogno; inquietanti simulacri somatici stirati in anatomie improbabili, in equilibri costosi, spesso trasfigurati in forme sintetiche che ascendono e si dilatano in una ritmica sinusoidale che vive anche del bianco lunare del marmo e delle atmosfere notturne suggerite dalle setose patine dei bronzi, in uno svariare di verdi opalescenti, d’azzurri minerali, di bruni densi com’ebano. Qui la luce, con l’incidenza sulle superfici, denota morfologie scultoree che si librano in felice e nativa armonia, con movimenti e snodi talora guizzanti, talora rallentati dal magistrale raffinato virtuosismo  di un andamento curvilineo.

Per Mario da Corgeno lo scolpire per via di levare e modellare assurge a momento psicopompo di catarsi e di rivelazione magica e panica di un mondo dalla bellezza aurorale e virginale, sospeso fra l’estetico e l’estatico. Nella figurazione e negli stilemi di Mario da Corgeno riconosciamo il colto portato della grande scuola plastica italiana, dell’Art Nouveau, del simbolo europeo, del dinamismo plastico futurista di Boccioni, non che’ il toccante patetismo di un Wildt redivivo. Davvero, la scultura di Mari da Corgeno è forma dell’idea platonica di bellezza; una forma tutta intima, come dimostra la contiguità espressiva del disegno, dove l’iniziale realismo grafico di una scuola annigoniana e lo sfumato d’ascendenza rinascimentale toscana cedono il campo ad un segno sempre più conciso, sommario, sintetico, ma sempre guidato da un occhio commosso.

Catafratte di cosmica malinconia, queste immagini di Mario da Corgeno emanano una sorta di sommesso ma percepibile profumo spirituale, pur slogate in uno strazio lancinante e muto che ci ricorda come la luce della vita s’accompagni sempre all’ombra della sua fine.

Se dal punto di vista linguistico non v’è dubbio che l’artista di Corgeno ci proponga un espressionismo sui generis, fortemente deformante, altrettanto indubbiamente è che tale vis deformante opera non per sadismo ma – al contrario – per amore, per troppa pietas, in un gesto formale e comunionale che è l’estensione della notte che ci avvolge tutti; quella notte dell’anima in cui coabitano e lottano le potenze d’eros e thanatos, della vita e della morte, ma che è il solo nostro medicamento, così da far dire a Mario da Corgeno, insieme a Michelangelo, che soltanto lei, la notte, è un “ dolce tempo benché “

( Testo: Di Domenico Montaldo )

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